

Anime
Azzurre
Una vita passata a una quota precisa: 2000 metri sopra il livello del mare. Senza vederlo mai, il mare. Le città degli uomini. I mondi di fuori. Sullo sfondo di una val Badia mezza reale e mezza immaginata, questa storia risponde a una sola domanda: come si fa ad appartenere a qualcosa?

Lo descrivo come un piccolo gioiello: una storia che potrebbe essere vera, una descrizione attenta della natura e delicata quanto si tratta di raccontare i sentimenti. Alcuni passaggi sono come piccole gemme preziose: delicati e meravigliosi. Lo consiglio assolutamente.
Evelin
Fantastico racconto, coinvolgente e delicato, appena avevo un minuto libero correvo a leggerlo, descrizione dei luoghi magnifiche, sembrava di esser li, ed è proprio questo il fine di un libro ben scritto, coinvolgerti a tal punto da immedesimarti e rapirti dentro,consiglio questa lettura.
S27
Un racconto che tutti gli amanti delle montagne dovrebbero leggere. Due culture completamente diverse messe a confronto e non solo...Complimenti all'autore. Lavoro superbo.
Johnny G.
IL LIBRO
IL LIBRO
IL LIBRO
Copertina standard



È l’autunno del 2001. Mentre il resto del mondo guarda due torri che smettono di essere torri, per Johann, che vive in un bivacco a quota 2000 metri, nelle Dolomiti più belle e solitarie, quelle notizie arrivano lontane, come parte di un mondo estraneo. È una vita piccola, piena di solitudine, la sua, fatta di routine allenate negli anni: le transumanze, le corse ad alta quota, i lavori al rifugio, le albe alle seggiovie, i silenzi giganti dei monti. Johann non è mai uscito dalla valle. Non ha mai superato i suoi confini. Non è mai arrivato tra le colline, nelle pianure, nelle città orizzontali.
Sogna gli zero metri sopra il livello del mare, che non ha mai visto. Un divieto vecchio, una proibizione che non viene da nessuna parte se non da lui, gli impedisce di andarsene. Ma una notte, in mezzo al buio, in mezzo all’inverno che comincia, arriva una ragazza nella valle. Viene da New York, parla con un accento straniero ed ha appena perduto ogni cosa. Vengono da mondi opposti, ma sono mossi dalla stessa domanda: come si fa ad appartenere veramente a qualcosa?
La trama, tutta.

L'autore
Alessandro Botteon è originario di Trento. Ha studiato a Milano, Los Angeles e Toronto, laureandosi in international management. Ha lavorato da Google dove ha accelerato startups made in Italy. È proprietario di una tech company che si occupa di intelligenza artificiale e storie.

1.
Verso la fine del 2001, mentre le televisioni di metà mondo si sintonizzavano su due torri che smettevano di essere torri, nell’alta Val Badia, in una delle punte più estreme del Nord dell’Italia, cadeva una pigna.

2.
Johann la raccolse, soppesandola tra le dita. Poi alzò lo sguardo e la valle intera gli si aprì negli occhi castani. Alle sue spalle l’ultimo sole d’estate cadeva, nascosto dalla vetta inclinata del Piz Boè. Iniziava, nel marrone delle cortecce e nei venti ora più freddi dentro i fortini delle due guerre, l’autunno.
Johann mosse il bastone, lanciando un urlo basso, pieno di forza. Poco lontano Burg, il cucciolo di pastore belga, abbaiò di rimando, correndo fino alla testa della mandria. Era l’ultimo giorno di transumanza. Il tratturo calava lungo i prati verdi e d’oro che, tempo due mesi, sarebbero diventati piste da sci. Al loro termine, nel chiuso delle stalle, le vacche avrebbero riposato per la stagione invernale.
Sedendosi ai margini del percorso mentre la mandria scendeva, sollevando suoni di campana nell’aria, Johann guardò i raggi già rossi riflettersi sulla cima del Sassongher, talmente affilata da parere una lancia spezzata alzata a guerra contro il cielo.
Di colpo, nel fissare quel percorso rotolarsi, curva dopo curva fino a valle, provò un brivido. All’improvviso il peso dei pastori venuti prima di lui, i pastori del Medioevo, i pastori della Preistoria, i pastori di altri popoli e di altre lingue, gli arrivò addosso, tutto intero, e allora chiuse gli occhi e pensò all’eternità di quel tragitto ripetersi nei millenni, pensò al tempo, non quello delle stagioni, ma quello più lungo dei sassi e della terra e delle montagne, per cui siamo formiche con gli occhi alzati alle stelle — che si chiedono chissà cosa viene oltre e prima e dopo, e che comunque non ci arriveranno mai, a capirlo, e restano lì, nobili in quanto coscienti e nobili in quanto mortali, avanti e indietro in transumanze molto più complesse, le transumanze degli aeroporti e delle autostrade — ma che, alla fine, sono sempre la stessa cosa: storie di gente che va e di gente che resta, finché non cade il sole, finché non scende la notte, finché, arrivati alla fine, stremati e forse contenti, avranno capito, o solo sfiorato, cosa significa vivere veramente una vita.

3.
Le campane echeggiarono sugli altipiani di Corvara. Johann contò dodici rintocchi nel buio e chiuse il recinto esterno della fattoria. Burg arrivò di corsa, con un entusiasmo contrario al silenzio che saliva dalle case tutte intorno. Abbaiò, e in lontananza qualche cane solitario abbaiò di rimando.
Johann alzò la testa al cielo velato di nubi. Quel giorno compiva diciassette anni. E, pensò, era solo il calendario a dirlo. Il tempo meccanico dei compleanni, lì, non aveva senso. Gli orologi si fermavano al passo Gardena, il confine esterno della valle. Dentro contavano altre unità di misura. I passi, le balle di fieno, i litri di latte, i tramonti, le albe, i respiri, i battiti risalendo e scendendo i fianchi nudi dei monti, l’intervallo fra una nube e la successiva, fra un fulmine e il suo tuono gemello. Il tempo era sporco, terreno, era il tempo verticale degli strati alti dell’atmosfera che incontra il tempo orizzontale dei tetti e delle strade.
Johann accese una lanterna e si mise in cammino. Il sentiero ora più buio scivolava sotto le ombre mobili della luce. Gli alberi intorno si chiudevano come guardiani, a schermare il debole bagliore di una luna lontana. Dal fondo della valle avrebbe impiegato quasi due ore per raggiungere lo chalet. I sassolini leggeri scivolavano sotto le suole dei vecchi scarponcini. Ai lati del sentiero, gli ultimi funghi tardivi crescevano, segreti, nella notte. Il vento componeva note usando le cortecce come strumenti. Ma il resto era di un silenzio pauroso, come a ricordare la sua estraneità, la sua separazione dal resto delle vite della valle.
Johann non apparteneva. Era un pastore, con mansioni da pastore. Viveva i ritmi, le tradizioni, le giornate di un pastore. Era il mestiere di suo padre, e di suo nonno, e di generazioni perdute prima di loro, che ora sono ossa, corteccia e terra. Eppure la intravedeva, quell’altra vita veloce, la vita aerea che passava nei 747 che volavano vicini, a dieci chilometri sopra la sua testa, la vita elettrica che s’accendeva nel ronzio dei tubi catodici appesi nei bar assonnati di Corvara, la vita straniera delle chiacchiere alzate dai turisti, ora austriaci, ora tedeschi, ora di chissà dove, che arrivavano per l’estate e scomparivano quando le foglie diventavano rosse, e per qualche settimana appena catapultavano avanti la valle con tutte quelle novità che venivano da fuori, come un orologio dimenticato in un cassetto, dalle pile scariche, che venga acceso una sola volta all’anno.
D’un tratto il sentiero si aprì e la strada s’immerse in una salita talmente pendente che Johann dovette usare le mani per aggrapparsi e non scivolare. I venti s’alzarono di colpo, tutti insieme, approfittando della fine della foresta. La lanterna sbatacchiò sfiorando rocce aguzze, ma Johann non se ne curò. Aveva fatto quel percorso centinaia di volte, conosceva i punti solidi e quelli in cui la roccia era più friabile.
Apparve un ponticello metallico, poco lontano. Mandava dei riflessi argentati oscillando sotto la forza delle correnti oblique. Johann lo raggiunse. Era vecchissimo, le assi di legno mangiate dai decenni e dalla pioggia, con ampi buchi visibili in mezzo a loro. Era lungo un centinaio di metri, e s’appendeva all’estremità di un’altra montagna. Era una delle più antiche vie d’uscita dalla valle.
Facendo leva sui fili d’acciaio, Johann si sedette sul bordo di legno che si muoveva in avanti e indietro con forza. Lasciò andare le funi metalliche e chiuse gli occhi, senza più barriere a tenerlo. Oltre, s’apriva un abisso. Una ventata lo sospinse di colpo in avanti, inclinando il ponte su un lato. Johann si trovò d’un tratto a mezz’aria, già pronto a cadere. Poi, in un ultimo movimento violento, riafferrò il cavo e l’aggrappò a sé, le mani graffiate e il cuore veloce.
Si rialzò in piedi, un ricordo negli occhi pieni di vento.
4.
— È solo un ponte, disse una voce lontana.
— Leo, non farlo.
La pioggia scompigliava ogni cosa. I capelli castani dei due fratelli erano sparati in aria, le loro giacche impermeabili troppo grandi erano attraversate da rivoli d’acqua che si riversavano in pozzanghere già larghe sulla terra.
Leonard fece un primo passo, saggiando le assi sconnesse del ponte. Si voltò indietro guardando un Johann bambino, gli occhi lucidi mascherati dal diluvio.
In lontananza un sole estivo, furioso, bruciava facendosi strada tra le nubi bagnate dell’alba.
— Non farlo.
Leonard fece un altro passo, sempre saldo ai corrimano metallici che sbatacchiavano gridando contro i venti e il diluvio. Da qualche parte esplose un tuono che fece vibrare le fondamenta del monte.
— Leo, torniamo a casa, ti prego!
Johann era in singhiozzi, congelato sul bordo della montagna e incapace di muoversi. Poco più in alto, dall’altro lato del ponte, un cervo spiava la scena, immobile sopra una roccia sopraelevata.
— Voglio vedere la valle di là, urlò Leonard per sovrastare la voce della pioggia. Voglio uscire di qui!
Aveva qualche anno in più di Johann, i capelli più lunghi, i primi accenni di barba sul volto, lentiggini rarefatte.
Fece un altro passo. L’asticella tremò, s’inclinò e si spezzò. Leonard scivolò nel buco. Non ci fu nemmeno un grido. Su tutti i suoni della natura, salì l’eco di un colpo secco, come un mobile che si rovescia, o un libro che cade di faccia sul pavimento. Poi la pioggia riprese la sua orchestra d’acqua. Pioveva nel buco sul ponte. Pioveva sul bordo del monte. Il cervo, dall’altro lato, non c’era già più.

